Fan Fiction “elen sila lumenn omentielvo”
Parte prima
Avere
una biblioteca così vasta significa abbandonare qualche libro e lasciarlo lì ad
ingiallire sotto la polvere. Come si fa per i vecchi album fotografici, a Lex
prese la voglia di rispolverare la sua memoria insieme a quei libri che aveva
letto da piccolo, prima che la sua vita divenisse un inferno mascherato di
divertimento e amicizie pericolose. Si ricordò di possedere “Alice nel Paese
delle Meraviglie”, “Viaggio al centro della Terra”, “I Racconti del Grottesco e
dell’Arabesco”, “Il Mago di Oz”, “Piccole Donne” (forse questo non era proprio
suo…) ed “Il Signore degli Anelli”. Quante volte lo aveva letto! La prima volta
era stata un po’ come perdere la verginità: travolgente ma da prenderci un po’
di distacco; un’opera così maestosa… e se non ne avesse capito il senso? Se ci
fosse un filo conduttore nascosto, una morale di vita di fondo? Allora lo
rilesse, o meglio, lo ispezionò parola per parola, alla ricerca di quel
significato velato… Una, due, tre, otto volte, per poi definirlo il capolavoro
di un pazzo, di un megalomane appassionato di folletti.
A
quel libro era legato soprattutto perché glielo aveva regalato sua madre, una
copia degli anni ’70 firmata dall’autore stesso e anche perché, da piccolo, nei
momenti difficili, a lui piaceva rifugiarsi in mondi fantastici, insieme a
Gandalf e ad Aragorn. Era solo in quei momenti che sapeva di non essere solo e
che sua madre era sempre lì con lui. Ma c’era anche un’altra cosa che rendeva
quel libro speciale: i paesaggi descritti da Tolkien gli ricordavano quando aveva
circa dodici anni e si trasferì per quasi un anno in Svizzera, dove il padre
intratteneva lunghe ed estenuanti trattative per l’acquisizione di una società.
Vicino allo chalet dove abitava, c’era un’altra casa, dove abitava una
ragazzina di qualche anno più piccola di lui, alla quale piacevano tanto gli
animali. Lei veniva spesso nei pressi alla casa di Lex, perché era la più
vicina delle due ad un magnifico bosco, al centro del quale vi era un lago. Lex
spesso andava a sedersi sul porticciolo a leggere qualche capitolo di quel
libro fantastico, o meglio, la parte in cui la compagnia dell’anello si trova
nei boschi di Lothlorièn, appartenenti all’elfa Galadriel. Solo che, un giorno,
mentre stava leggendo per l’ennesima volta come i nove lasciavano dolorosamente
la bellezza di quella foresta elfica alla volta di Mordor, una lucertola cadde
sul libro e ci mancò un pelo che non precipitasse nell’acqua.
Allora
si voltò e vide una bambina coi capelli lunghi fino al fondo schiena, neri come
la pece, che lo fissava con un sorriso compiaciuto sulla faccia, tonda e
paffutella, con due belle guance rosse.
“Lo
sai che piacevi molto a quella lucertolina? Me lo ha detto personalmente! Ha
anche precisato che non le importa niente se stai seduto al suo posto, dove
riesce a specchiarsi e, allo stesso tempo, stare al sole per abbronzarsi!”
disse lei.
“Le
lucertole non si abbronzano! Hanno solo bisogno del calore solare per non
morire. Sono animali a sangue freddo, non lo sapevi?” rispose Lex.
“Si,
lo sapevo. E’ solo che non mi piace detto in quel modo!” disse la piccola. Si
sedette accanto a Lex e gli dette un bacetto sulla guancia dicendo: “Da parte
della lucertolina!”.
Oltre
che ritrarsi dal contatto con la bambina e a pulirsi dalla saliva rimastagli
sulla faccia, esclamò: “Bleah! Che schifo!” che risuonò per tutta la valle.
La
bambina si difese con un sorriso ancora più grande e radioso, tanto che le sue
guancione rosse stavano per offuscare i suoi grandi occhi neri a mandorla.
“Dove
li hai messi i tuoi capelli? Sai, io li ho lunghissimi e, visto che domani li
dovrò tagliare, te ne posso prestare un po’!” disse ingenuamente la piccola.
“Non
ho bisogno di una parrucca!” rispose l’altro, che si alzò indignato verso casa
sua.
“Non
volevo offenderti! Scusa! Mia madre mi diceva sempre che se la smettessi di
dire tutto ciò che penso, avrei i capelli come te! Come in Pinocchio, quella
fiaba dove c’è un pezzo di legno che…” ma Lex non l’ascoltava più. Non gli
andavano a genio le persone che parlavano e parlavano senza sosta. Arrivarono
alla porta del suo chalet e lei era soltanto a metà della storia! Incominciava
ad odiarla, e pensò: “Ma dove si è mai cacciato quel cagnaccio della
governante! Quando abbaia spaventa tutti… Speriamo spaventi pure lei!”
“Lily
è rimasta chiusa nella cantina, per questo non può venire ad abbaiarmi…”
rispose prontamente lei.
“Che
cosa?”
“Ho
già fatto conoscenza con quella piccola palla di pelo. Sarà odiosa, ma se le
sai parlare… Lo sapevi che starà per avere tanti cucciolini! Tante piccole palline
di pelo come lei…”
Lex
provò ad immaginarsele tutte… E pensò che fosse meglio entrare in casa e
tagliare corto con quella bambina!
“Diventiamo
amici? Sai, io non conosco nessuno, e non ci sono molti bambini nei paraggi…”
disse lei, sempre con quel sorrisone sul viso.
“Amici?
Ma se non ti conosco e già ti odio!”
“Perché
mi odi? Lo sai che questo sentimento è uno dei più brutti del mondo? Mia madre
mi diceva sempre che…”
Lex
doveva trovare un modo per farla stare zitta; gli stava venendo il mal di testa
e non ne poteva più di quella voce strillante che gli martellava le orecchie.
“Mi
chiamo Lex.”, disse, quasi come un’implorazione di pietà.
“Io
mi chiamo Luthien… ma guarda che ora si è fatta. Devo andare, ciao!”
Nonostante
tutto, diventarono grandi amici, quasi fratelli. Tutti i giorni andavano al
lago, costruivano delle barchette con foglie o gusci di noce e le facevano
navigare. A volte prendevano la barchetta attraccata al porto e andavano
dall’altra parte, ad esplorare. Giocavano sempre, tutto il giorno ed il massimo
del divertimento erano gli animali. Si radunavano intorno a loro e li
osservavano giocare; non sembravano affatto spaventati, anzi, se ne stavano lì
buoni mentre Luthien li accarezzava e parlava loro come ad essere umani.
Chiedeva loro come si chiamavano, se stavano bene e se si volessero unire ai
loro giochi. Gli scoiattoli erano i più simpatici perché non si stancavano mai
di corrergli intorno e di arrampicarsi sui vestiti. A volte si attaccavano ai
capelli di Luthien e non se ne volevano proprio andare.
Lex
le comprò dei walkie-talkie molto potenti, cosicché Luthien gli potesse
raccontare una delle sue storie quando erano nei loro letti, prima di
addormentarsi. Una notte, Luthien lo chiamò e gli disse di incontrarsi di lì a
poco al porticciolo. Non era molto freddo, ma Lex batteva comunque i denti ed
aveva i brividi.
“Che
cosa mi devi dire Lulu?” chiese lui.
“Ti
devo confidare un segreto… io posso parlare con gli animali!”
“Non
è vero! E’ che sei solo una stupda mocciosa viziata!” la implorò Lex.
“E’
la verità! Da quando abito qua è come se li sentissi parlare nella mia testa.
Guarda ti faccio vedere!” e incominciò a chiamare gli scoiattoli ad alta voce.
Ma questi non arrivarono. Allora si addentrò nel bosco e provò di nuovo,
urlando a squarciagola. Lex s’infuriò e corse verso casa.
“Perché
nessuno mi crede mai! Lex, ti odio!” gridò Luthien, ancora nel bosco.
“Se
solo ti avessi creduto…” pensò Lex, quello grande, mentre sfogliava le pagine
di quel cimelio, sempre più deciso a metterlo sotto una campana di vetro, come
per proteggerlo dalle brutte cose della vita. Era una bella giornata estiva e
fuori faceva caldo. Decise di andare a fare un viaggetto in macchina, da solo.
Solamente per pensare ai suoi affari.
Pioveva da quasi un’ora. Guardò
l’orologio e vide che era mezzanotte passata, un po’ presto per andare a letto
ma comunque una buona ora per farlo quella sera dato che, la mattina seguente,
avrebbe dovuto partecipare ad una riunione con suo padre. La cosa lo irritava
molto, così decise che sarebbe stato meglio svegliarsi ben riposato.
Mentre
si sistemava nella sua posizione preferita, ebbe bisogno di bere e l’assenza
del bicchiere con l’acqua sul suo comodino lo costrinse ad alzarsi per andare
in cucina. Il tragitto non era lungo, ma era sempre una faticaccia farlo! Passò
davanti al suo studio, entrò in cucina e bevve una bella sorsata di latte.
Stava per mettere il piede sulla soglia, quando la sua mano, appoggiata sullo
stipite della porta, toccò del fango. Stupito da quella presenza insolita,
guardò lungo le mura e sul pavimento: si accorse che molte impronte erano state
lasciate da qualcosa o qualcuno, che era riuscito ad eludere i sistemi di
sorveglianza e ad entrare. Decise che sarebbe stato meglio seguirle,
chiedendosi come mai, uno come lui, non ci aveva fatto caso. Pensando che la
causa di ciò fosse solo il sonno, le seguì. Conducevano dritte al suo studio.
La paura non era uno de sentimenti che aveva provato più di tutti ma, quella
volta, capì che un po’ di prudenza, visto che la sua vista acutissima lo aveva
tradito, non gli avrebbe fatto poi male.
Girò
la maniglia e si intrufolò cautamente all’interno. Le tracce continuavano fin
dietro la sua scrivania e finivano davanti alla poltrona, voltata in modo da
dargli le spalle. Con uno scatto, la roteò verso di lui. Una ragazza stava lì,
rannicchiata, con la testa sulla ginocchia. Un filo di voce uscì dalla bocca.
Era tutta sporca di fango.
“Loro
sono arrivati… per me… per salvarmi…” e svenne, cadendo dalla poltrona. Lex la
raccolse e la portò in camera sua. In quel momento, le lenzuola di seta
macchiate fino all’ultimo pezzo di stoffa erano l’ultima cosa che gli
importava. La scosse, come per farle riprendere vita. Chiamò il suo dottore,
dicendogli che era molto urgente. Si precipitò e la visitò per quasi un’ora.
Disse che era meglio portarla in ospedale, ma Lex chiese se era possibile farla
curare lì, nel suo castello, e che avrebbe pensato lui all’acquisto di
macchinari medici adatti e all’assunzione di infermiere specializzate. Il
dottore annuì e se ne andò.
Il
giorno seguente tutto era pronto per la strana paziente di Lex, arrivata lì dal
nulla. Era entrata in coma, non molto profondo, ma abbastanza da non prevedere
quando si sarebbe potuta risvegliare. Aveva delle ferite profonde su tutto il
corpo, causate dalle piante, e anche delle cicatrici sulle mani. Le infermiere
le fecero un bagno e la vestirono. Lex si chiese che cosa aveva dovuto passare
per essersi ridotta in quel modo e perché era venuta lì, da lui. Era
sicuramente scappata da qualcosa o qualcuno, ma per riuscire ad entrare al
castello, bisogna avere conoscenza dei sistemi di sicurezza che lo sorvegliano.
Non aveva documenti con sé e non era possibile risalire al luogo di provenienza
nemmeno analizzando i vestiti, perché le infermiere li avevano lavati con cura,
prima che Lex potesse spedirli in laboratorio. Allora chiese di poter rimanere
solo con la ragazza; cercò di parlarle ma lei non rispondeva. Era sicuro che
riuscisse a sentirlo, perché le dita della mano destra picchiettavano
leggermente dopo ogni domanda. Ma quel battito non corrispondeva ad alcun
codice conosciuto e Lex rimase lì a fissarla, come se il suo occhio potesse
trovare le risposte a tutte le domande che gli venivano in mente.
La
porta bussò. Era Clark, un ragazzo di Smallville molto amico di Lex. Discussero
un po’ sulla ragazza e Clark disse che non l’aveva mai vista prima di adesso.
Poi chiese se era stata sottoposta a radiografie, per scoprire se aveva qualche
frattura; l’altro rispose di no perché non aveva dato il permesso di
trasportarla in ospedale. Convinto dall’amico a farlo, i dottori le fecero una
radiografia completa a tutto il corpo, a condizione che i risultati fossero
consegnati direttamente al suo dottore.
Dopo
qualche giorno, lui si presentò, chiedendo chi fosse in realtà quella donna.
Lex rispose che, negli ultimi due mesi, non era stata denunciata la scomparsa
di nessuna ragazza la cui descrizione corrispondesse a lei. Ancora più
preoccupato, gli mostrò le radiografie.
“Ci
sarà un errore! Roba così, sta
solamente nei fumetti degli X-Men!” disse Lex, riconsegnandole i
risultati.
“All’inizio
ho pensato anche io che ci fossero stati alcuni sbagli. Ma questa è la terza
radioscopia che faccio. Allora ho provato a cambiare macchinario, ma niente.
Quella povera donna ha così tante radiazioni in corpo, che potrebbe essere
usata al posto dell’uranio nelle centrali nucleari.” rispose Helen.
“Non
crederò mai che nell’altra stanza vi sia la copia femminile di Wolverine. Non è
reale!”
“Io
ho fatto quel che ho potuto. La scienza può arrivare fino qui.”
Lasciò
le radiografie nello studio e se ne andò. Lex le osservò più volte,
attentamente, fino a che si alzò per andare dalla ragazza. Le infermiere non
c’erano ed ebbe il tempo di esaminarla senza interferenze e domande.
“Se
tutto questo è vero, questi segni sulla mano hanno a che fare con queste lame
di metallo che a questa poveretta hanno impiantato nelle braccia.” pensò e si
dette anche dello stupido per averlo fatto. Come è possibile che sia vero? Nessuno sopravvivrebbe con dei pezzi di
ferro lunghi dieci centimetri nel braccio! Si voltò e stava per aprire la porta
quando la ragazza lo chiamò.
“Lex…
Aiutami…”
“Si
ti aiuterò… ma non so come farlo. Infermiera! Venga presto! Dimmi chi sei, forse
troverò una cura per te…” disse Lex.
“Devi…
nel bosco… chiama e ti risponderanno… l’unico modo… morire.” La ragazza
ansimava così forte che non si riusciva a capire bene quello che diceva. Lex
corse fuori dalla stanza alla ricerca delle infermiere. Nessuna delle due si
trovava nei paraggi così chiamò ancora una volta la sua fidanzata.
“Ho
controllato i nastri delle macchine ma niente fa pensare ad un risveglio
temporaneo dal coma. Il cuore non ha accelerato i battiti e non c’è segno di
attività cerebrale più intensa di così. Mi dispiace, sarà la stanchezza, è due
giorni che si affanna per lei, provi a dormire.”, gli consigliò il dottore,
chiamato ancora da Lex.
La
cosa non lo soddisfaceva per niente. Lui aveva visto con i suoi occhi, aveva
sentito che lei parlava di qualcosa nel bosco, di chiamare. Ma cosa doveva
essere chiamato, non lo aveva detto. Con un pugno di niente in mano, chiamò
Clark e gli parlò dell’accaduto. Si recarono nel bosco vicino al castello e si
sentirono entrambi un po’ stupidi perché, chiamando qualcosa di cui non
sappiamo né il nome, né se esista davvero, c’è da essere presi per pazzi.
Il
bosco era molto vasto ed era sua intenzione nominarlo area protetta. Nonostante
ciò si mise ad urlare.
“C’è
qualcuno che possa aiutarmi? Mi hanno detto di venire qua, a cercare qualcuno o
qualcosa, che sia in grado di curare una mia amica che sta male.” Si sentì
definitivamente un idiota.
Mentre
Lex urlava a squarciagola, Clark vagava lì intorno. Un cespuglio enorme di rovi
non permetteva di vedere al di là di esso, ma all’improvviso si mosse.
D’istinto Clark si ritirò e chiamò Lex, il quale, speranzoso di aver trovato
qualcosa per la ragazza, si precipitò a vedere. Si avvicinò troppo con la mano
e si bucò con una spina.
“Non
c’è niente Clark. Torniamo a casa. Mi arrendo. I medici non hanno ancora
trovato una cura ed io non voglio che muoia!”
“Lex,
aspetta! Se ci tieni tanto a lei, cerca ancora. Io comunque non posso restare
oltre. Devo dare una mano in fattoria. Se ti serve ancora aiuto, chiamami. Ci
vediamo.” E lo lasciò li solo.
Lex
continuò per un’altra ora ma le sue speranze erano sempre più misere. Decise
che era meglio tornare a casa, faceva freddo, un freddo tale da entrarti nelle
ossa. Si voltò e prese la strada del ritorno.
Mentre
camminava, qualcosa si mise a tirargli il laccio delle scarpe. Un rametto
d’albero si era incastrato e dovette chinarsi per toglierlo e, mentre era
intento a farlo, dell’aria calda gli venne spruzzata sul collo. Un enorme e
bianchissimo lupo stava lì a fissarlo, ringhiando paurosamente. Lex cadde
all’indietro dallo spavento, afferrò un bastone e cercò di colpirlo, ma la
bestia fu più veloce di lui e gli si piantò sopra, con gli occhi fissi dentro
ai suoi.
Steso
con la schiena a terra, sbranato da un lupo: non avrebbe mai pensato di morire
così, soprattutto perché i lupi non abitano in quelle zone da più di cento
anni. L’animale non sembrava avere intenzione di muoversi di lì, né di
morderlo, anche se continuava a ringhiare.
“Lasciami
andare!” ringhiò a sua volta Lex, provando di divincolarsi inutilmente. Le
zampe della belva erano piantate sul suo petto e sembravano pesanti come una
casa. Tentò il tutto e per tutto. “Che cosa vuoi da me?”
Il
lupo scese dalle sue spalle e gli leccò la faccia. Corse verso la sua casa. Lo
seguì, ma la bestia era più veloce di lui. Quando entrò nella stanza della
ragazza, trovò il lupo accasciato per terra, morente.Ora il battito cardiaco
era normale e un sorriso le apparve sul viso. Aprì gli occhi e li voltò in
direzione di Lex.
“Hai
visto! Mi sono salvata…” disse flebilmente. Portò una mano alla bocca,
sbadigliò e si mise a dormire.
Le
infermiere, avvisate da Lex, si precipitarono a visitarla. Dissero che Dio
l’aveva aiutata a guarire, insieme alle loro preghiere. Anche se lui non aveva
mai creduto in Dio, annuì.
Dopo
una settimana, Luthien era in grado di camminare con una sola stampella e le
ferite si erano rimarginate. Non era molto cosciente del posto in cui si
trovava e, a dire la verità, spesso le sembrava di essere ancora in Svizzera e
voleva per forza andare a giocare al lago. Lex non capiva come potesse essere
ancora viva. L’aveva vista morire, tra le sue braccia, e non aveva potuto fare
niente per tenerla in vita. Quegli attimi gli ritornavano in mente più chiari
di prima e, perciò, si sentiva ancora più responsabile della sua morte.
“Se
solo ti avessi creduto… o almeno ti avessi detto che lo facevo, anche se poi
non era vero…” aveva continuato a ripetersi per molti anni, dopo che l’aveva
persa. Infatti, se lo avesse fatto veramente, lei non avrebbe cercato di
dimostrargli che sapeva parlare con gli animali, cadendo nel lago di notte,
mentre voleva fare una conversazione con i pesci. Quando si accorse che Luthien
stava chiedendo aiuto, era troppo tardi. L’acqua era molto fredda e lui cercò
in tutti i modi di salvarla. Lei non sapeva nuotare e andò a fondo. Si tuffò e
l’afferrò. Era gelida e non respirava. Cercò di farla respirare come meglio
poteva e, quando capì che non ce l’avrebbe fatta da solo, corse verso casa con
lei in braccio. Non aveva potuto assistere ai suoi funerali, perché suo padre
concluse i suoi affari il giorno seguente. Tornò in America con un grosso peso
sulle spalle, e sul cuore.
Luthien
se ne stava sempre seduta davanti alla finestra della sua camera, con gli occhi
puntati verso il nulla, pieni di malinconia.
“Che
cosa ti sta passando per la mente, Lulu?” le chiese Lex.
“Niente,
non riesco a ricordarmi niente di quello che mi è successo.”
“Io
ti ho vista morire! Ho sentito il tuo cuore spegnersi e non battere più! Come è
possibile che ora tu sia qui, davanti a me, e mi parli?”
“Non
lo so, Lex. L’unica cosa che so è che questo… fa male.” Disse Luthien. All’improvviso quattro lame ricurve
e appuntite spuntarono dalle nocche delle sue mani.
Un’equipe
specializzata di scienziati tentò di analizzare quel metallo ma era impossibile
scalfirlo; di conseguenza, non era cosa terrestre. Luthien sentiva molto dolore
e le pareva che il suo corpo avesse accettato tutto quello che le era stato
messo dentro. Era molto stanca e, durante il viaggio di ritorno, si addormentò.
Fino al pomeriggio del giorno seguente dormì un sonno molto movimentato. Si
scuoteva continuamente, si lamentava e piagnucolava, si svegliava di
soprassalto, sudata e impaurita. Le infermiere le somministravano dei sonniferi
molto potenti, ma non avevano alcun effetto su di lei. Una notte si svegliò
dopo un incubo così reale che si rifugiò di soppiatto nel letto di Lex, che
rimase molto stupito, soprattutto perché sembrava riuscisse a dormire senza
problemi. L’unica questione era che Luthien non aveva perso il vizio di
russare. “Segno che ora è più tranquilla! Ora però dovrò dormire io…” pensava.
Col
passare dei giorni, l’anima di Luthien si andava calmando. Il castello sembrava
meno vuoto e freddo con lei, che riempiva ogni angolo con la sua presenza
giovanile e candida. E se non la incontravi mentre correva per i corridoi,
stava sicuramente nel bosco ad accarezzare qualche animale. Le piaceva molto
cantare, leggere e raccontare storie a tutti. Ma siccome gli essere umani non
erano avvezzi a frequentare quel castello, si accontentava di parlare con i
suoi amici animaletti. Tutto questo le dava ancora più pace ma, quando guardava
le sue mani, sentiva che c’era ancora qualcosa che non andava. I ricordi
stavano ritornando e pulsavano sempre di più nella sua testa, però non riusciva
a dare una forma reale a questi pensieri. Fino ad allora, era riuscita a
nascondere il suo segreto. Sapeva che Lex non le avrebbe creduto se non fosse
riuscita a dimostrarglielo. Ancora una volta.
Un
pomeriggio, era tutta impegnata a correre lungo i corridoi per acchiappare una
dannata mosca che l’aveva infastidita per ore. Saltò più in alto che poté e la
prese.
“Finalmente
smetterai di fuggire. Ora ti porterò fuori, all’aria aperta.” Disse
all’insetto. Si recò alla porta d’ingresso, visto che era la via d’uscita più
vicina a lei. Fece per avvicinarsi alla maniglia, quando uno strano odore entrò
di prepotenza su per le sue narici. La porta si aprì di scatto e con forza e ci
mancò poco che non la colpisse se non si fosse spostata. Al di là c’era un uomo
con i capelli ricci, sulle spalle. Forse aveva una cinquantina d’anni. Non fece
buona impressione su Luthien, che continuava a fissarlo dritto negli occhi.
“Se
fossi un leone, accetterei la tua sfida.” Rispose l’uomo sarcasticamente.
Luthien
cercò di non guardarlo più in quel modo e richiuse la porta che l’altro aveva
lasciato aperta dietro di sé. Lentamente lo seguì fino a che non si serrò
all’interno di una stanza; andò da Lex e gli chiese chi fosse.
“E’
mio padre. Non ti immischiare nei suoi giri… tutti quelli che lo hanno fatto,
finiscono male. Come hai passato la giornata? Ti sei stufata di rincorrere le
mosche?” chiese ironicamente.
“Sai
che è una vera faticaccia farlo se sei un uomo?” risero entrambi di gusto.
“I
tuoi sogni? Vanno migliorando?”
“Si,
credo di si… Lex, c’è una cosa che devo dirti. Ti chiedo solamente di sederti e
di stare ad ascoltarmi bene.”
“Parla
pure.”
“Ti
ricordi quella notte al lago? Non stavo mentendo. Io posso davvero parlare con
gli animali…”
“Lulu,
ascoltami bene, questa storia non mi piace. Non la voglio più sentire, chiaro?”
“Lex,
ti prego fammi finire…” lo implorò la ragazza, in preda alle lacrime.
“Non
ti voglio perdere ancora per delle stupidaggini del genere! Cristo santo,
perché non mi capisci?” urlò Lex, così forte che Luthien scoppiò a
singhiozzare. In un gesto istintivo, lui la abbracciò per scusarsi, ma strinse
solo aria. Ai suoi piedi c’era un piccolo criceto intento a rosicchiargli il
laccio della scarpe.
I
suoi occhi erano puntati verso il niente, fuori dalla finestra. Gli tremavano
le mani, benché la storia di Luthien fosse finita già da un bel pezzo.
“Ricapitolando…
Che cosa ti è successo veramente?”
“Quando
sono caduta nel lago, in Svizzera, cercavo di risalire in superficie, ma
l’acqua gelida aveva riempito i miei polmoni. Mi sforzai ancora di più e mi
parve di essere arrivata a galla perché riuscivo a respirare come prima. Poi
sei arrivato tu, mi hai tolto dall’acqua e mi sono sentita di nuovo soffocare
perché mi mancava l’aria. Quando mio padre mi trovò, stavo per morire…”
“Si.
Mio padre vide che le mie mani stavano cambiando come i miei piedi, e che sul
collo avevo dei taglietti, simili alle branchie. Si spaventò a morte. Pochi
giorni dopo celebrò il mio funerale ma, naturalmente, la bara era vuota. Una
società offrì qualche milione di dollari a mio padre per me. Della mia
permaneza lì, mi ricordo che ho ricevuto una regolare istruzione, ho imparato a
fare tutte quelle cose che una ragazza della mia solita età doveva studiare.
Solo che non era sempre così. C’erano dei periodi in cui mi riempivano di
sedativi e…” le lacrime le uscivano copiosamente dagli occhi. “Una notte ci fu
un incendio che distrasse metà dei laboratori; mi abbandonarono lì e, quando
ripresi conoscenza, mi misi in cammino per arrivare fino a qui. Sapevo che non
avevo molte possibilità di farcela e così mi trasformai in vari animali.”
Questa
storia sembrava proprio creata da una fervida immaginazione infantile, come
quella di Luthien. C’erano dei punti oscuri in tutto il racconto, ma Lex
preferì non entrare più nel discorso apertamente con lei. Pensò che sarebbe
stato meglio fare qualche ricerca personale sull’accaduto e che non avrebbe
fatto parola con nessuno.
“Se sapessi come è diverso il mondo visto da
me! Sento odori che voi non riuscite a percepire, come l’aroma della vostra
pelle, e anche i suoni, come il girare impercettibile di una chiave nella toppa,
il frusciare delle foglie quando non c’è vento… Sai che tuo padre odora di
plastica nuova?”
“Plastica
nuova?” chiese Lex, sorridendo.
“Si,
proprio così. Hai presente la nuova tenda che hai fatto mettere nel mio bagno?
Proprio lo stesso odore… e non mi piace per niente! Tu profumi di carta
vecchia, come le pagine di un libro che è tanti anni che non apri.! Posso
sentire il vostro arrivo quando siete anche lontani un chilometro da me. E
posso vedere anche in lontananza. Quindi puoi piazzarmi sul tetto a fare la
sentinella!”
Era
proprio piacevole stare con lei; riusciva ad infonderti un senso di pace
interiore, che Lex non provava da tantissimo tempo. Era come una sorella per
lui. La sorella che non aveva mai avuto.
Luthien
lasciò lo studio per andare a fare un giro in centro a Smallville. Decise che
era meglio farsi una bella volata fino alle porte della cittadella, non aveva
voglia di camminare. “Un falco vola molto veloce e molto in alto.” e spiccò il
volo.
Era una ridente
cittadina abitata da persone abbastanza amichevoli, l’aria era pulita e
profumata di fiori primaverili. Camminava piano, cercando di imprimere nella
sua memoria tutto quello che vedeva e che percepiva. Camminava con un sorriso
stampato in faccia e la gente a volte la guardava stupita, ma non ci faceva
caso. I cagnolini, legati dai loro padroni fuori dai negozi, le abbaiavano
festosi e le leccavano la mano quando lei si fermava ad accarezzarli. Le venne
una gran fame ed entrò in un locale che aveva l’aria di un vecchio cinema,
restaurato ad arte. Entrò e si sedette al primo tavolo libero. Tutto intorno a
lei, ragazzi della sua età che chiacchieravano, ridevano o studiavano. Una
cameriera molto carina, con lunghi capelli neri come i suoi, le chiese se voleva
qualcosa da bere. Luthien ordinò qualcosa che le sembrava fosse un panino. Dopo
qualche minuto, stava divorando quello che effettivamente era un panino, con
della carne e dell’insalata all’interno. Venne il momento di pagare e si
accorse di non avere preso con sé i soldi. “Adesso come faccio? Posso provare a
dire che sono parente dei Luthor e forse lei capirà…”
“C’è qualche
problema?” disse una voce, a lei familiare, che proveniva da dietro di lei.
“Niente, Clark. E’
solo che questa ragazza non ha i soldi per pagarmi.”, rispose la cameriera.
“Non ti preoccupare. Pago io per lei… Magari
poi chiederò il rimborso a Lex!” La ragazza non capì a cosa si riferiva, ma
evidentemente aveva del lavoro da sbrigare e non chiese spiegazioni. Luthien
squadrò quel ragazzo seduto al suo tavolo, come sarebbe riuscito solo a lei. Un
tipo abbastanza carino, con occhi molto simpatici e genuini. Non si soffermò a
registrare tutti quei particolari nel suo archivio mentale, ma una cosa saltò
alla sua attenzione: non riusciva a percepire il suo odore.
“Come stai?” le
chiese, in tono molto amichevole.
“Sto bene. Io ti
conosco, ho già sentito la tua voce…”
“Quando ti ho
conosciuto eri in coma. Lex mi ha detto che sei guarita di lì a poco. Che cosa
ti era successo?”
“Niente di importante.
Comunque mi chiamo Luthien. E tu dovresti essere…”
“Clark Kent, amico
fidato di Lex. Piacere di conoscerti, Luthien.”
Si scambiarono una
stretta di mano e Luthien sentì che quel ragazzo aveva qualcosa di diverso da
tutti gli altri, ma era indefinibile. Non volle dare peso a tutto ciò e si mise
a parlare con lui. Preferì non parlare della sua vita privata, anche perché
sapeva che lui era in parte a conoscenza di quello che le era successo. Durante
questa piacevole conversazione, conobbe anche gli altri amici di Clark: Pete,
Chloe, un’incallita cuoriosona che la riempì di domande, e Lana, la ragazza che
l’aveva servita, la proprietaria del locale.
La maggiore
preoccupazione era creare un’altra identità per Luthien. Secondo il certificato
di nascita, doveva compiere ancora vent’anni, ma il suo aspetto ingannava
molto. Quando Helen la visitò, disse che poteva averne diciassette, non di più.
Facendo leva su questo, modificò l’anno della sua nascita e si dette da fare
per redigere altri documenti falsi sulle generalità della ragazza.
Una mattina andarono
insieme al liceo e Lex chiese di parlare con il preside. Disse che era la
figlia di un amico di suo padre e che, dopo la morte dei suoi genitori in un
incidente stradale, era stata affidata legalmente, come scritto sul testamento
della madre, alla famiglia Luthor. Aveva ricevuto un’istruzione privata per via
delle sue condizioni di salute. Ora che era guarita, i medici avevano
acconsentito a farle frequentare il liceo. Era una storia classica, ma preferì andare
sul semplice. Luthien fu quindi iscritta al liceo di Smallville e, il giorno
seguente, partecipò alle lezioni. La cosa suscitò scalpore, perché non era cosa
da tutti i giorni essere accompagnati a scuola
con una macchina come quelle. Le ragazze la snobbarono, mostrando così
una certa invidia nei suoi confronti mentre i ragazzi avevano un altro povero
bersaglio per i loro scherni. Dal suo canto, Luthien cercava di essere gentile
ed educata con tutti, cosa che aumentò la sua impopolarità.
Quando era piccola e
suo padre la “donò” alla società di ricerca, nei periodi nei quali non veniva
sottoposta ad esperimenti, una signora sulla mezza età si occupava della sua
istruzione. Era una donna molto severa, che si aspettava il massimo dalla sua
alunna. Così, l’unica cosa che le rimase meno difficile, era inserirsi nel
programma scolastico. La maggior parte degli argomenti li aveva già affrontati
e, quindi, fu etichettata come secchiona. Clark ed i suoi amici erano le uniche
persone di cui si fidava e strinse amicizia con loro. Non chiese mai aiuto
quando qualche bullo cercava di darle noia ma loro erano sempre lì ad aiutarla.
Non le dispiaceva
affatto che le mettessero dei ragni o dei rospi nell’armadietto e, quando
capirono che ci provava gusto nel trovarsi degli animaletti del genere addosso,
si preoccuparono di prenderle lo zaino per giocarci a football, di rubarle gli
appunti per strapparli, di gettarla in piscina quando camminava lungo il bordo
e di tirargli la palla in faccia, facendo passare tutto per un incidente. Clark
e Pete furono pure sospesi per un giorno perché avevano innescato una rissa nel
tentativo di far capire a quella gente che dovevano smetterla di infastidirla.
Luthien tentava ogni volta di non perdere il controllo di sé stessa perché, se
avesse sguainato le sue lame… Lex parlò più volte col preside, il quale sapeva
benissimo chi erano questi studenti, ma non poteva fare molto per punirli, in
quanto erano figli dei principali donatori oppure di persone molto importanti a
Smallville.
Gli scherzi si
facevano sempre più pesanti e la situazione, dopo qualche settimana, divenne
insostenibile. La campanella che pose fine all’ora di educazione fisica suonò e
gli studenti si avviarono verso gli spogliatoi. Il professore trattenne Luthien
per chiederle se voleva far parte di una delle squadre della scuola. Aveva
notato che era molto agile e le consigliò di partecipare agli allenamenti di
corsa. Luthien accettò e il professore la lasciò andare a cambiarsi. Gli
spogliatoi erano semideserti e non le ci volle molto tempo a farsi la doccia e
a mettersi panni puliti. Mentre si stava spogliando, sentì le risate delle
ultime persone che se ne andavano e si autoconsigliò di sbrigarsi, perché Lex
avrebbe avuto una riunione importante e, se fosse stata in ritardo, l’avrebbe
lasciata a piedi. Anche se non le dispiaceva farsi un voletto, era meglio fare
in fretta. Fece una bella doccia calda, tanto da far crescere una nebbia molto
fitta che appannò gli specchi e i vetri delle finestre. C’era qualcosa di molto
strano in quella situazione; si sarebbe aspettata un attacco da parte di
qualche deficiente che ce l’aveva con lei. Ma non capitò. Andò davanti al suo
armadietto e si vestì in fretta. La nebbiolina era arrivata fino a lì. “Cavolo,
ce ne sarà di pavimenti da pulire questa volta!” pensò ridendo di gusto tra sé
e sé.
“Che cosa hai da
sghignazzare?” chiese una voce alle sue spalle. Solo che questa voce era
accompagnata da altre due, che ridevano sotto i baffi.
“Lasciatemi stare! Non
ho niente da spartire con voi!” rispose brutalmente Luthien, oramai al limite
della pazienza.
“Ora che non c’è
Luthor a difenderti… come farai?”
“Vi ho detto di
lasciarmi in pace.”
“Si, ti lasceremo in
pace presto… molto presto.” I due scagnozzi la presero per le braccia e la
sbatterono contro un muro. Luthien domandò a sé stessa come mai non li aveva
sentiti arrivare. Forse la nebbia aveva attutito i loro odori perché, ora che
ne erano usciti, li sentiva molto bene. Era mezza nuda, aveva indosso solo la
maglietta e la biancheria. Temeva che l’avrebbero violentata e non le fu
permesso di chiedere aiuto perché le tapparono la bocca. Le tolsero quel poco
che aveva addosso. Rimase nuda ma non le fecero altro. La lasciarono lì e se ne
andarono via ridendo come dei pazzi. Luthien esplose, si alzò, indossò la
t-shirt e si diresse verso il nemico. Sguainò la sua arma migliore.
Il giorno dopo, quando
altri studenti entrarono negli spogliatoi e aprirono gli armadietti, trovarono
tre ragazzi, completamente nudi, chiusi lì dentro. Il colpevole non fu mai
scoperto. Il preside sapeva di chi era la colpa, ma non approfondì la
questione. Gli studenti cominciarono a mormorare e non si verificarono altri
episodi simili, anche se Luthien rimase sempre oggetto di scherno, e non di
vandalismo vero e proprio. Chloe dedicò una stupenda prima pagina ai tre
ragazzi, definendo sarcasticamente il gesto come “un’atto di bontà umanitaria”.